All’inizio era solo Luciano, l’allenatore concreto e diretto dell’Empoli, il tecnico che badava al campo e poco ai riflettori. Poi, nel corso degli anni, è diventato Spalletti, il filosofo del pallone, l’uomo capace di trasformare una conferenza stampa in un piccolo manifesto esistenziale. In trent’anni di carriera, dall’Arno a Torino passando per Roma e Napoli, ha seminato frasi, parabole e battute che raccontano la sua idea di calcio e di vita: sempre in equilibrio tra ironia e profondità.
Il tacco, la punta e la verità del campo
È l’agosto del 2009, Spalletti vive le ultime settimane alla Roma prima delle dimissioni. È stanco delle finezze inutili, delle giocate leziose: “E il tacco, e la punta, e il numero, e il titolo. Se non si fanno i contrasti, non si vincono le partite”. Dietro la rabbia, la sua filosofia più pura: niente orpelli, solo sostanza. In quel momento non c’è ancora il predicatore che sarebbe diventato, ma l’uomo che pretende verità dal campo, non dagli applausi.
Le galline del Cioni e l’ironia come scudo
Uno dei momenti più iconici arriva anni dopo, nella seconda parentesi romanista. A una domanda troppo pungente, Spalletti risponde battendo la testa sul tavolo e poi, glaciale, ribalta tutto con una frase che entra nella storia: “Le galline del Cioni hanno bisogno di mezzo chilo di granturco al giorno. Va bene come risposta?”. Il Cioni, suo vicino di casa a Montaione, diventa così un simbolo del mondo parallelo di Spalletti, dove ogni polemica è risolta con una metafora disarmante.
I panni sporchi, i re e i pagliacci: Spalletti in versione morale
Quando nel 2020 gli chiedono del caso Icardi, Luciano non si nasconde: “I panni sporchi si portano alla lavanderia a gettoni, fuori. E qualche volta ci si piglia pure tutta la centrifuga.” Una frase che racchiude la sua idea di trasparenza: meglio uno scossone pubblico che l’ipocrisia di spogliatoi silenziosi.
E poi la massima più amara: “A fine corsa, la vita ti dà la poltrona che ti meriti. Da re, se sei stato un re. Da circo, se sei stato un pagliaccio.” Una lezione morale più che sportiva, consegnata con la solita calma toscana di chi sa che il tempo, prima o poi, rimette tutto al suo posto.
La mamma, Sarri e la Toscana nel sangue
In un Fiorentina–Inter finito 1-1, Spalletti scherza ma non troppo: “Lo so che mi manca un centrale, me lo dicono tutti. Anche la mia mamma, che ha ottant’anni, lo sa.” L’ironia, per lui, è sempre un modo di addolcire la verità.
E con Sarri, suo antico “rivale di territorio”, le stilettate non sono mai mancate: “Se Sarri avesse continuato a lavorare in banca, ora sarebbe ministro dell’economia.” Due anime toscane che hanno trasformato la dialettica in arte tattica.
Uomini forti, destini forti: il manifesto di una carriera
Ci sono frasi che diventano motti. L’11 settembre 2016, dopo una rimonta romanista sulla Sampdoria, Spalletti pronuncia la più celebre:
“Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli. Non c’è altra strada.”
È più di un aforisma: è la sua filosofia esistenziale, il marchio di un tecnico che si è costruito passo dopo passo, con testardaggine e orgoglio.
L’uomo e il personaggio
Dalle conferenze surreali alle metafore di provincia, Luciano Spalletti è diventato un genere a sé: un allenatore capace di unire il calcio alla letteratura, la cronaca alla parabola. Oggi, arrivato alla Juventus, porta con sé non solo la sua lavagna tattica, ma anche quel modo unico di leggere il mondo. Perché per lui il calcio non è solo gioco o fatica: è una lingua, e in quella lingua Luciano – il filosofo del pallone – continua a scrivere le sue verità.


 
  
  
  
  
 