Doveva essere la partita della maturità, quella in cui prendere sul serio i segnali di crescita visti nelle uscite precedenti. Invece, contro il Manchester City, è andato in scena un copione già noto: la Juventus si è spenta sul palcoscenico internazionale, incapace di reggere l’urto con una squadra vera, costruita per vincere. Il risultato è impietoso: 5-2 per gli inglesi, ma a colpire più del punteggio è stata la sensazione di impotenza. I bianconeri sono stati passivi, disorganizzati e vulnerabili, senza alcuna reazione tecnica o emotiva. L’impressione è che, in questo momento, il gap con le grandi d’Europa sia ancora profondo, strutturale, forse anche mentale.
Un passo indietro mascherato da normalità
Igor Tudor, nel post-partita, ha scelto una linea diplomatica: ha parlato di sconfitta “che non ridimensiona”, ha ricordato la forza del City, ha difeso i suoi giocatori. Ma a chi ha visto la gara, queste parole sono sembrate fuori fuoco. Perché al di là del valore dell’avversario – oggettivamente tra i migliori al mondo – c’è stato il nulla juventino, e questo non può passare sotto silenzio.
Non si è trattato solo di perdere, ma di non esserci mai stati, di non riuscire a opporre nemmeno una reazione di nervi, di non fare mai una vera scelta coraggiosa in campo. Quando si arriva a non riuscire nemmeno a disturbare, allora è lecito parlare di resa.
Non bastano le giustificazioni: la Juve aveva le armi
Il racconto secondo cui la Juventus non può competere con chi spende di più regge fino a un certo punto. È vero che il City ha una rosa costruita con investimenti colossali, ma anche la Juve non è a corto di risorse: in campo o in panchina c’erano Koopmeiners, Nico Gonzalez, Douglas Luiz. Giocatori costosi, esperti, internazionali. Eppure, due hanno deluso e uno non ha messo piede in campo. Colpa del mercato o delle scelte?
Se davvero questa Juventus vuole aprire un nuovo ciclo, non può rifugiarsi dietro ai numeri. Deve cominciare a costruire una mentalità. Perché è proprio quella, oggi, il vero abisso da colmare rispetto ai top club.
Un’identità che si smarrisce troppo in fretta
Il problema non è solo perdere, è non sapere chi si è quando le partite iniziano a far male. Dopo un avvio incoraggiante nel girone, con vittorie sì ma contro avversari modesti, è bastata una squadra seria per vedere crollare l’impalcatura. Una difesa in balìa degli eventi, un centrocampo confuso, un attacco scollegato. E in panchina, cambi tardivi, interpretazioni caute, linguaggio del corpo da resa anticipata.
Serve coraggio, serve convinzione, serve anche una scintilla emotiva. In campo non si è visto nemmeno un gesto di frustrazione, una scivolata rabbiosa, un fallo da “svegliati”. Niente. Ed è questo che oggi pesa più del punteggio.
E adesso? Serve un cambio di rotta vero
La Juventus è attesa da un ottavo di finale durissimo, contro un Real Madrid che non perdona. La domanda è: arriverà una reazione o sarà l’ennesimo giro su un binario già noto? Tudor ha fatto bene finora a proteggere il gruppo, ma ora serve qualcosa di più: serve costruire una squadra che sappia lottare, non solo galleggiare. Perché se ogni volta che si alza il livello il copione resta lo stesso, allora significa che il problema non è l’avversario. È l’identità.